Vini e sostenibilità in terra etnea: lapilli e zagare nel calice

In viaggio sulle pendici dell’Etna dove la salvaguardia della biodiversità e il recupero di antiche tradizioni hanno contribuito alla valorizzazione del territorio e alla produzione di vini di alta qualità.

La Sicilia, per me, è una terra controversa, ci si deve vivere un ciclo completo delle stagioni per comprenderla: dura ma bellissima, arida ma rigogliosa, profumi di zagare e gineste che crescono su suoli di lava e lapilli. Pur vantando un’antichissima tradizione vitivinicola, è una Regione fiera di una ricca arte culinaria al cui livello solo di recente si è elevata la qualità della produzione enologica, grazie ad una sempre più alta attenzione alla sostenibilità nella viticoltura.

Atterro a Catania in un giorno di fine primavera. Mi aspetta Sasà, il padre di un mio amico, origini catanesi, che si presta volentieri ad accompagnarmi in giro per cantine nella terra dei suoi nonni. Lasciamo l’aeroporto dirigendoci verso ‘a Muntagna, come i locali usano chiamare il vulcano, in segno di rispetto e gratitudine.  

Sasà mi spiega che, durante la dominazione musulmana, questa zona era chiamata Val Demone perché, narra la leggenda, l’Etna era abitato da demoni e il vulcano era considerato l’accesso agli inferi. Parliamo di quanto gli arabi, pur non essendo produttori di vino, hanno fatto bene alla viticoltura locale con l’introduzione dello zabib (zibibbo o Moscato di Alessandria), oltre a nuove colture che oggi sono alla base della gastronomia locale. Di contro, la mano dei miei avi romani cadde su tutto il territorio come una mannaia, espiantando le viti per fare della Sicilia il granaio d’Italia.

Questa è forse la zona più controversa dell’isola per le sue caratteristiche climatiche e ambientali che spaziano dal caldo afoso della costa alla neve dei freddi inverni sull’Etna. In questa zona si trovano i vigneti più antichi d’Italia, alcuni centenari e a piede franco, e io non vedo l’ora di vederli.

Il semicerchio intorno al cratere è diviso in contrade, tutte caratterizzate da terreni ricchi di silice ma ognuna con una sua componente specifica che la rende unica. Il susseguirsi di eruzioni vulcaniche nei secoli ha trasformato il suolo che in alcune zone risulta ghiaioso e ciottoloso, in altre ricco di ferro, alluminio e calcio; ad influenzare le coltivazioni sono anche le diverse esposizioni e altitudini che fanno di ogni versante un microclima a sé.

Ci dirigiamo verso il versante est dove penso di trovare una landa desertica grigia e cupa; con stupore, mi ritrovo dentro ad una tavolozza di colori, tra colate laviche che contrastano con una vegetazione rigogliosa. Le vigne si trovano tra i 400mt e gli 800mt slm, a metà strada tra cratere e mare. Il suolo ricco di minerali, la brezza marina e le importanti escursioni termiche tra giorno e notte, fanno di questo versante la patria di uve a bacca bianca dall’alta acidità fissa, prima su tutte l’uva del Carricante, vitigno autoctono alla base della DOC Etna Bianco, la cui acidità viene smorzata soltanto da una fermentazione malolattica completa.

Il nome del vitigno deriva dall’espressione dialettale u carricanti, grazie alla sua generosità di frutti capace di riempire i carri durante la vendemmia. Soltanto di recente se ne limita la produzione con potature decise per favorire la qualità a discapito della quantità.

Nel calice ritrovo i riflessi verdolini della vegetazione locale a fare da spalla a un giallo paglierino pallido; al naso arrivano le note tipiche di fiori e frutti del sud: zagara, agrumi e accenni di anice che ritrovo anche in bocca dove sgomita con vigore quell’acidità tipica del vitigno e dove ritrovo la sapidità della brezza marina. L’affinamento in acciaio esalta queste caratteristiche accentuandone la freschezza, mentre il passaggio in legno le ammorbidisce conferendo al vino una maggiore complessità olfattiva.

Proseguiamo verso il versante nord-est dove trovo un paesaggio surreale. Ginestre, ginepri, violette contrastano con il nero della pietra lavica. Da un lato, vedo fare capolino le cime di pini, castagni e querce e dall’altro, i terrazzamenti che degradano verso la costa si arricchiscono dei colori delle coltivazioni locali come ulivi, agrumi e mandorli, ai quali fa da sfondo il blu intenso del mare.

Sasà mi spiega che negli ultimi anni, alcuni viticoltori illuminati hanno scelto di recuperare i vitigni autoctoni valorizzando le proprietà dei suoli che, per quanto sofferenti di una produttività incostante, donano ai vini delle caratteristiche organolettiche assolutamente originali.  Seguendo pratiche di allevamento antiche e affiancandole a quelle moderne, si è arrivati a risultati d’eccellenza.

È il caso della Minnella Bianca, vitigno indigeno che difficilmente si adatta ad altre aree geografiche. Deve il suo nome alla forma oblunga dell’acino che ricorda la forma di una minna, ovvero della mammella.

Ancora più eclatante è il caso del Nerello Mascalese, originario della piana di Mascali, oggi allevato alle falde del vulcano per lo più ad alberello, antico sistema di coltivazione introdotto dai Greci che consente il riparo della pianta dal vento e la conservazione della giusta umidità del terreno. Spesso utilizzato in blend con altre varietà della regione, qui si tende a vinificarlo in purezza.

Siamo tra i 500mt e gli 800mt slm su suoli dalla forte componente minerale. Dalla costa, la brezza marina arriva a mitigare la temperatura e l’escursione termica tra giorno e notte può raggiungere i 25° nella stagione dell’invaiatura aiutando lo sviluppo cromatico e anticipando il profilo aromatico delle uve.

La stagione non mi consente di veder maturare i grappoli così vado a cercare nel calice il caratteristico colore blu-chiaro degli acini. Noto che il rosso rubino scarico tende al granato, quasi ad indicare la capacità di invecchiare con eleganza. Per renderlo meno trasparente, nella DOC Etna Rosso è consentita una piccola percentuale di Nerello Cappuccio, vitigno indigeno più ricco di sostanze cromatiche. Il naso racconta il territorio: sentori minerali decisi, cenni di erbe aromatiche e importanti note speziate conferite dalla vegetazione spontanea locale; in bocca ritrovo gli stessi aromi ma vengo travolta da una importante freschezza superata dalla sapidità e da una persistenza che vorrei non finisse mai.

Tra le cantine locali che si distinguono per qualità e impegno, quella che più esprime il territorio è senza dubbio I Vigneri di Salvo Foti con il suo progetto di valorizzazione delle coltivazioni autoctone utilizzando metodi di produzione nel rispetto dell’ambiente e degli uomini. Visitare il palmento etneo (antica cantina costruita in pietra lavica dove l’uva veniva trasformata in vino) è un modo efficace per capire la vita dei vigneri e come la tradizione, intesa come l’insieme di saperi e valori, sia un elemento distintivo e un valore aggiunto per la viticoltura locale.

Sasà dice che è d’obbligo una visita alla cantina Benanti, l’unica a vinificare in purezza la Minnella Bianca e nota per aver brevettato 4 lieviti indigeni utilizzati nelle fasi di fermentazione. Benanti alleva Nerello Mascalese su 3 versanti differenti del vulcano; mi regalo una degustazione orizzontale di Etna Rosso DOC alla ricerca delle peculiarità dei 3 terroir. La caratteristica comune è la vinificazione in purezza del vitigno che, dopo 12 mesi in tonneaux di rovere francese, fa un passaggio in acciaio prima di affinare in bottiglia.

In contrada Dafara Galluzzo (a nord), le viti sono allevate ad alberello a 750mt slm mentre in contrada Cavaliere (a sud-ovest) si trovano viti di circa 50 anni allevate a spalliera; il clima è montano, umido e ben ventilato. In entrambi i calici trovo sentori e aromi tipici del vitigno e un tannino deciso ma vellutato.

Nell’Etna Rosso DOC contrada Monte Serra (a sud-est) emergono differenti caratteristiche organolettiche: al naso si accentuano le note fruttate, in bocca la freschezza torna a primeggiare sulla sapidità e il palato è accarezzato da un tannino nobile.

Monte Serra gode di una posizione privilegiata; il clima meno estremo e l’elevata escursione termica conferiscono al vino profumi intensi e freschezza.  Allevate in alta collina su suoli sabbiosi e ricchi di ripiddu (lapilli), le viti sono anche centenarie con conseguente bassa resa di uve e grande varietà di profumi che si concentrano nei pochi acini destinati a diventare mosto. Ne consegue un vino complesso dal gusto pieno, persistente ed elegante.

Prima di tornare in aeroporto, ci fermiamo ad assaggiare un arancino al ragù di pesce spada abbinato a un Etna Bianco DOC. Sembra una scelta azzardata e invece l’aroma di zagara si sposa perfettamente con il pesce e il nerbo acido smorza la tendenza dolce di riso, pangrattato e polpa di pomodoro, quasi a confermare l’armonia tra ambiente e tradizioni.

Ora ‘a Muntagna mi appare generosa, sorrido pensando che i demoni avevano trovato il paradiso. Mi torna alla mente una frase di Salvo Foti, sintesi perfetta della mia esperienza, di vite e di vita, in terra etnea:

“L’Uomo così come una vite ad alberello deve sempre avere le sue radici ben salde nel passato (…), vivere (…) in armonia con tutti gli esseri viventi, (…) con la natura, con la nostra Terra, di cui siamo parte e non al di sopra”.